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LA RIVOLTA ANTIZARISTA

 

L’ascesa al potere di Alessandro II nel 1855 sembrò aprire qualche spiraglio di libertà nella congelata vita politica e sociale dell’impero russo. Il nuovo zar inaugurò infatti il suo regno concedendo un’amnistia ai detenuti politici vittime dell’autoritarismo del suo predecessore Nicola I e varando, dietro la pressione degli intellettuali di area progressista, una serie di riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell’esercito; venne inoltre promosso un parziale decentramento dell’apparato amministrativo attraverso la creazione di consigli distrettuali elettivi, gli zemstvo. La più importante riforma cui Alessandro II legò il suo nome fu però l’abolizione della servitù della gleba, pratica di retaggio feudale che vedeva ancora coinvolti oltre venti milioni di contadini: questi erano infatti vincolati alla terra che coltivavano e subordinati personalmente ai proprietari, ai quali fornivano un canone in denaro o un contributo in lavoro sui loro possedimenti. La riforma del nuovo zar, promossa nel febbraio 1861, permise ai contadini di acquistare la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, a livello concreto, diede loro l’opportunità di riscattare le terre che coltivavano divenendo così a tutti gli effetti piccoli proprietari terrieri.

Una riforma all’apparenza di portata epocale, che poteva cambiare radicalmente la vita dei contadini se non addirittura la società russa nel suo complesso, ma che nascondeva in realtà un preciso disegno assolutistico di Alessandro II, oltre ad una serie di inconvenienti per gli stessi beneficiari. I contadini si videro infatti assegnata una quantità di terra più piccola di quella che coltivavano prima della riforma e dovettero pagare, per entrarne in possesso, una somma mediamente superiore al suo effettivo valore. Buona parte dei contadini rinunciò così all’acquisto degli appezzamenti messi sul mercato, mentre i nuovi piccoli proprietari videro, nella maggior parte dei casi, peggiorare le proprie condizioni di vita a causa dell’ulteriore compressione dei consumi cui si videro costretti dopo l’ingente esborso economico. Alessandro II, dal proprio canto, aveva varato tale riforma nell’intento di ammansire la numerosa classe contadina per conquistarne così l’appoggio alla politica di oppressione e russificazione attuata nei confronti delle popolazioni straniere sottomesse all’impero, quelle polacca, lituana e bielorussa su tutte. Se lo zar si era infatti dimostrato disponibile ad introdurre qualche elemento di liberalismo all’interno della società russa, non altrettanto era disposto a fare nei confronti di quelle etnie che reclamavano una più ampia autonomia. E che manifestavano ormai con sempre maggiore frequenza la loro insofferenza nei confronti di tale situazione.
 

In risposta ad una serie di insurrezioni patriottiche scoppiate infatti in quei mesi in Polonia, nell’ottobre del 1861 il rappresentante locale di Alessandro II impose nel Paese la legge marziale. Uno degli effetti di tale sanzione fu l’introduzione dell’obbligo di coscrizione dei giovani polacchi all’interno dell’esercito russo, provvedimento che li costringeva dunque a servire proprio quelle istituzioni da cui si sentivano dominati e oppressi e contro le quali combattevano per ottenere la libertà. La strada che intrapresero fu così quella della rivolta, scoppiata nel gennaio 1863. Una sommossa che vide protagonisti circa diecimila giovani polacchi ai quali si unirono ben presto gli esponenti più illuminati della nobiltà e alcuni ufficiali dell’esercito zarista. Gli insorti non riuscirono però a costituire truppe regolari ben armate ed equipaggiate a dovere, rimanendo molti di loro nascosti nelle foreste per sfuggire all’ordine di coscrizione, mentre lo zar rispose mobilitando un apparato militare completo e organizzato fatto di quasi duecentomila unità, nella piena convinzione di poter sedare facilmente la rivolta. Una convinzione, però, rivelatasi ben presto errata.
 

Pur nettamente inferiori da un punto di vista numerico e di mezzi a disposizione, gli insorti crearono un governo provvisorio clandestino incaricato di gestire sia l’aspetto politico che quello militare della rivolta. Il primo provvedimento che emisero fu un manifesto in cui i polacchi venivano dichiarati cittadini liberi uguali tra loro senza alcuna distinzione sociale e religiosa; le terre coltivate dai contadini sarebbero divenute di loro proprietà, mentre lo Stato avrebbe avuto il compito di risarcire i proprietari terrieri. La lotta all’esercito russo fu invece organizzata secondo le tecniche della guerriglia, unica forma di combattimento attuabile con l’esiguo numero di uomini e di mezzi a disposizione, che produsse otto sanguinose battaglie solamente nel mese di febbraio. Decisivo ai fini degli sviluppi della rivolta fu però la posizione assunta dagli altri Paesi europei. Il governo provvisorio lanciò infatti un appello internazionale nella speranza di ottenere un appoggio concreto alla propria causa, ma le manifestazioni di solidarietà espresse dal Papa e da altri Stati come Francia, Norvegia e Portogallo non si tradussero in aiuti concreti. Fu al contrario Alessandro II, sorpreso dall’ardore con il quale i polacchi stavano portando avanti la rivolta, a beneficiare dell’aiuto della Prussia di Bismarck, che inviò diverse unità con l’obiettivo di soffocare l’insurrezione e mise a disposizione dello zar il proprio sistema ferroviario per il trasporto di uomini e mezzi. La netta presa di posizione del cancelliere ebbe l’effetto di infiammare improvvisamente gli insorti, che trasformarono la rivolta in una vera e propria guerra anti russa: l’intera nazione si strinse infatti intorno alla causa rivoluzionaria, imbracciando le armi e sostenendo l’azione del governo provvisorio. Gli stessi polacchi che ricoprivano cariche all’interno dell’apparato russo si dimisero per sottomettersi agli ordini del governo clandestino, evidenziando la propria vicinanza alla nazione in lotta.
 

La trasformazione della rivolta in guerra cambiò radicalmente la situazione. Dalla guerriglia spontanea si passò alla costituzione di un esercito di trentamila uomini e fu parallelamente lanciata una nuova campagna di coscrizioni, mentre i nobili polacchi finanziarono personalmente le operazioni militari con denaro, mezzi e altri uomini. L’insurrezione si estese a macchia d’olio alle vicine Lituania, Bielorussia e, in parte Ucraina, che fraternizzarono con i rivoltosi polacchi e mossero anch’esse guerra alla Russia; arrivarono infine i primi contingenti di volontari da alcuni Paesi dell’Europa Occidentale, Italia compresa (l’ex colonnello garibaldino Francesco Nullo guidò seicento volontari di varie nazionalità, trovando egli stesso la morte in guerra). L’intervento esterno non sortì però gli effetti sperati: non sempre sostenuti da una determinazione reale ed effettiva in difesa della Polonia, i patrioti finirono a volte per ostacolare le operazioni militari, proprio mentre, indispettito da tale afflato solidaristico internazionale, il governo russo intensificò i propri sforzi volti alla soppressione della rivolta. I gruppi polacchi più radicali, inoltre, finirono per abbandonare il proprio sostegno ad una causa che era diventata solamente nazionale e non più occasione per una rivoluzione anche sociale, aprendo una crepa insanabile all’interno del governo provvisorio.
 

La repressione attuata dai russi fu durissima. Oltre agli uomini caduti sui campi di battaglia, i polacchi ne persero molti altri impiccati o deportati in Siberia. Interi villaggi e città furono dati alle fiamme, mentre i nobili pagarono il loro appoggio alla causa polacca con pesanti tasse e confische. Le brutalità commesse dall’esercito di Alessandro II suscitarono una profonda indignazione in Europa, ma nessun Paese si mosse concretamente per interrompere tale politica di sterminio. Il governo provvisorio polacco, dal proprio canto, continuò ad esortare la popolazione al combattimento, nonostante le terribili conseguenze che questo comportava. Vi era poi il problema costituito dai contadini, buona parte dei quali non aveva ancora beneficiato delle terre promesse ed era rimasta tagliata fuori dal coinvolgimento generale nella guerra: si cercò allora di estendere la partecipazione anche a questi ultimi, chiedendo loro di insorgere e garantendo l’acquisizione delle terre che coltivavano. La risposta fu tutto sommato soddisfacente, ma non al punto da creare la sollevazione di massa sperata; una parte dei contadini, poi, avendo beneficiato della riforma promossa in precedenza da Alessandro II e concretamente attuata, aveva voltato le spalle alla causa rivoluzionaria mantenendosi fedele allo zar.
 

I combattimenti proseguirono in maniera incessante per tutto l’anno vivendo fasi alterne: le forze rivoluzionarie riuscirono anche a strappare diverse città ai russi, i quali mantennero comunque una netta superiorità numerica per l’intera durata del conflitto. La guerra prese una piega negativa per gli insorti quando, nel 1864, i rappresentanti del governo provvisorio furono catturati e giustiziati nella cittadella di Varsavia: già logori fisicamente e mentalmente dalle oltre seicento battaglie combattute e privati ora dei propri leader, i rivoltosi vennero sconfitti nella seconda metà del 1864, quando i russi stroncarono definitivamente la rivolta.
 

La guerra si concluse per i polacchi con il tragico bilancio di venticinquemila morti. Le conseguenze più dure, però, furono quelle che seguirono la fine delle ostilità: i russi misero infatti in atto una durissima repressione nel corso della quale giustiziarono altre centinaia di ex rivoltosi e trasferirono forzatamente decine di migliaia di persone in Siberia e in altre regioni remote. In Polonia, poi, lo zar impose un marcato processo di russificazione delle leggi, della società e dei costumi: vennero confiscate diverse terre ai legittimi proprietari, fu applicata una nuova imposta sulle rendite come indennità di guerra, la Chiesa si vide privata di tenute, monasteri e conventi, vennero chiuse scuole e università polacche, fu deciso l’insegnamento in russo di tutte le materie scolastiche ad eccezione della religione e fu decretato il russo lingua ufficiale del Paese, punendo chi parlava polacco nei luoghi pubblici. Lo Stato venne inoltre diviso in dieci province, guidata ognuna da un responsabile militare russo e sotto il completo controllo del Governatore Generale residente a Varsavia; tutti i precedenti funzionari di governo furono allo stesso tempo privati delle loro posizioni. L’ondata repressiva riguardò anche la stessa Russia, dove Alessandro II decretò un appesantimento del clima politico e un nuovo inasprimento della censura e dei controlli polizieschi, segno che quella ventata di liberalismo soffiata con la sua ascesa al potere era ormai del tutto cessata.
La rivolta del gennaio 1863 va inserita in quella lunga serie di insurrezioni che caratterizza la storia della Polonia dalla disgregazione dello Stato del 1795 alla riconquistata indipendenza nel 1918, risultando sicuramente la più importante dell’intero periodo. La sconfitta subita e le tragiche conseguenze che ne seguirono segnarono duramente la storia del Paese e rimasero ben impresse nell’immaginario collettivo e nella letteratura nazionale, al punto che solamente la proclamazione del nuovo Stato polacco alla fine della prima guerra mondiale poté riscattare del tutto la disfatta e i suoi esiti. Al di là dell’aspetto militare, caratterizzato peraltro dalla tenacia e dall’orgoglio con cui gli insorti affrontarono un esercito più forte e numeroso, rimase comunque l’importante eredità costituita dal governo provvisorio creato nel corso dell’insurrezione, una realtà caratterizzata da strutture amministrative democratiche e funzionanti su cui si sarebbe poi basata la società polacca nella costruzione del proprio Stato indipendente.

 

Tratto da:

http://www.memorimese.it/2013/1/la-rivolta-antizarista-del-gennaio-1943.html

 

La Rivolta di Gennaio 1863

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